I.M.I. Internati Militari Italiani

I. M. I. – SOFFERENZA AL RIENTRO – Vitoronzo Pastore

PSICOPATOLOGIA DEI REDUCI DAI CAMPI DI CONCENTRAMENTO MILITARI

CONTRIBUTO DEL DOTT. MAURO DELL’OLIO – NEUROPSICHIATRA – ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO

STAMMLAGER L’INCUBO DELLA MEMORIA

BISCEGLIE (BAT) – CASTELLO SVEVO ANGIOINO – 23 APRILE 2018

Con il termine Internati Militari vennero indicati dalle autorità tedesche i soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori della Germania nei giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell’armistizio di Cassibile, l’8 settembre 1943. Dopo il disarmo, soldati e ufficiali vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco o, in caso contrario, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10 per cento accettò l’arruolamento. Gli altri vennero subito considerati prigionieri di guerra.
Ma purtroppo in seguito cambiarono status divenendo “internati militari” (per non riconoscere loro le garanzie delle Convenzioni di Ginevra), e infine, dall’autunno del 1944 alla fine della guerra, lavoratori civili, in modo da essere utilizzati come manodopera coatta senza godere delle tutele della Croce Rossa loro spettanti.
Erano 600.000 gli Internati Militari Italiani (IMI)
Gli internati furono così impiegati nei campi e nelle fattorie, nelle industrie belliche (alcuni anche nella produzione di missili V2, incarico nel quale moltissimi persero la vita in condizioni disumane di lavoro), nei servizi antincendio delle città bombardate.
La situazione del campo di concentramento è una situazione cosiddetta estrema, che comportò la disumanizzazione, una disumanizzazione storica, umana e psicologica assolutamente specifica, peculiare e irripetibile
Sul piano psichiatrico, rientra nella categoria generale denominata DPTS, disturbo post traumatico da stress, inizialmente chiamata dallo stesso Freud nevrosi da guerra, post traumatica.
Gli inglesi l’hanno chiamata shellshock, da noi era il vento degli obici: era la malattia nata sui campi di battaglia e nelle trincee della Prima guerra mondiale. I soldati colpiti dalla sindrome misteriosa avevano una varietà di sintomi: palpitazioni, tremori, paralisi o tremori in tutto il corpo, incubi, insonnia; a volte smettevano di parlare. Alcuni sembravano perdere il senno per sempre, altri recuperavano dopo un periodo di riposo. Se ne è parlato su Lancet. Gli autori sottolineano le peculiarità del disturbo dei soldati nella Prima guerra mondiale: uomini condannati a portare occhiali scuri a vita perché non sopportavano più la luce, tachicardia inspiegabile vita natural durante.
I sintomi principali del disturbo post traumatico da stress sono la presenza di flashback, incubi notturni, ottundimento e riduzione della reattività verso il mondo esterno, evitamento delle situazioni temute, aumento dello stato di allerta (l’arousal).
Ma torniamo ai reduci dei lager militari ed alla disumanizzazione
Devo queste mie brevi riflessioni a due fonti bibliografiche, la prima squisitamente “tecnica” del prof. Nicola Lalli, titolare di Clinica Psichiatrica e Psicoterapia, “La Sapienza” di Roma.
L’altra è rappresentata dalla maestosa opera in tre volumi di Vitoronzo Pastore, dal titolo Stammlager l’incubo della memoria, libro intriso si può dire da questo “incubo” che con modalità appunto post-traumatiche ha fatto rivivere compulsivamente e all’infinito tale esperienza disumanizzante.
Storicamente, la ricerca clinica sull’odierno Disturbo Post-traumatico da Stress muove i primi passi negli Stati Uniti e in Israele, con una serie di studi effettuati sui sopravvissuti all’Olocausto, in particolare sui reduci dai campi di sterminio nazisti: viene allora definita la cosiddetta “sindrome del sopravvissuto” (survivor’s syndrome), i cui sintomi (nervosismo, insonnia, incubi che hanno come contenuto l’Olocausto, cefalea, disturbi psicosomatici, instabilità emotiva, depressione del tono dell’umore, astenia, faticabilità, ipermnesia riguardante gli eventi avvenuti durante il periodo dell’Olocausto, senso di colpa per essere sopravvissuti, ansia cronica e generalizzata, anedonia, difficoltà di concentrazione) appaiono in parte sovrapponibili a quelli del Disturbo Post-traumatico da Stress che, appunto, da essa origina. La ricerca è continuata poi, sempre negli USA, con i veterani del Vietnam e con i rifugiati dal Sud Est Asiatico.
Un trauma specifico, legato all’esperienza del Lager, che Lalli chiama “trauma da disumanizzazione”, le cui caratteristiche peculiari della natura di questo trauma, per le condizioni materiali, contestuali e storiche in cui esso si è verificato, sono assolutamente uniche, e che non sono evidenziabili in nessun altro tipo di trauma, A livello delle conseguenze sui reduci si possono evidenziare alcuni aspetti clinici peculiari, in particolare per ciò che riguarda il senso di colpa della vittima e l’impossibilità di una completa elaborazione dell’esperienza subita, aspetti che nelle vittime di questo trauma hanno implicazioni cliniche e psicodinamiche altrettanto peculiari.
Le personalità di alcuni sopravvissuti “eccellenti” e molto noti, in diversi ambiti culturali e sociali (in particolare, Primo Levi, Bruno Bettelheim, ecc.) hanno certamente influenzato la percezione sociale di questa figura umana. Il reduce, il testimone, è il nostro unico collegamento diretto con l’Olocausto: la maniera in cui egli racconta o descrive la propria esperienza personale della Shoah configura e informa la percezione che ne abbiamo
Nell’immaginario collettivo l’immagine del reduce dai lager sembra oscillare tra due estremi, due “archetipi” (o stereotipi) di sopravvissuto: colui che ha superato e integrato l’esperienza dell’Olocausto e, all’estremo opposto, colui che ne è stato sopraffatto (dopo Primo Levi, verrebbe voglia di chiamare questi due archetipi “il salvato” e “il sommerso”).
Il primo “archetipo”, ovvero il sopravvissuto che ha superato il dolore e il trauma, rimanda indirettamente a una visione ottimistica dell’uomo e del futuro dell’umanità: esso rappresenta un’immagine che sottolinea il valore positivo della sopravvivenza dell’uomo alla forma più estrema di violenza che si possa immaginare, sopravvivenza resa possibile non solo dal caso o dalla fortuna, ma anche da una serie di qualità insite nella natura umana; tale “archetipo” fa dunque appello ad una concezione positiva dell’essere umano, il cui spirito possiede innumerevoli risorse e inaspettate capacità di resistere a qualunque forma di male, anche la più inaudita. Tuttavia, in questa positiva valorizzazione delle risorse dell’uomo, esso rischia di far perdere di vista, o quantomeno di non sottolineare abbastanza, la gravità della colpa commessa dai persecutori e delle violenze perpetrate, cosa che non rende giustizia ai reduci ancora viventi.
Il secondo “archetipo”, ovvero quello del sopravvissuto che alla fine viene sopraffatto dall’enormità insormontabile dell’esperienza traumatica, non fa appello all’inesauribilità delle risorse dello spirito umano, ma rimanda continuamente alla profondità dell’offesa subita, all’ingiusta morte delle vittime e alla gravissima colpa inemendabile dei persecutori, i cui atti criminali – le deleterie conseguenze dei quali continuano a perseguitare le vittime anche molti decenni dopo – non possono essere certo considerati limitati al periodo che va dal 1933 al 1945. Questo “archetipo”, che ha il merito di sottolineare la gravità e la portata universale dell’offesa alla dignità umana subita, tende tuttavia a proporre una visione piuttosto disperata dell’uomo, cosa che rischia di essere gravemente angosciante per gli ex deportati ancora viventi.
Questi “sommersi della letteratura psichiatrica”: i reduci che, subito dopo, o anche decenni dopo la persecuzione nazista, mostravano evidenti segni di compromissione del funzionamento fisico, psicologico, sociale, lavorativo e relazionale, nonché un alto tasso di mortalità o di suicidio, cosa che ci costringe a porci un interrogativo circa la possibilità di una non elaborabilità del trauma psichico massivo;
Le testimonianze di numerosissime vittime di questi lager sono state raccolte dalla splendida opera in tre volumi di Vitoronzo Pastore, dal titolo Stammlager l’incubo della memoria, ed in questa folla silente di sofferenze umane, quale dei due archetipi prevale?
I “salvati della letteratura psichiatrica”: quei reduci che, lungi dal manifestare un grave danno psicopatologico e un più alto tasso di mortalità, mostravano invece un buon inserimento sociale e lavorativo, raggiungevano posizioni anche preminenti all’interno delle proprie comunità di appartenenza, avevano (ed hanno, i pochi ancora viventi) una buona resilienza.
Purtroppo, per i meccanismi del cervello umano, il DPTS comporta riduzione di volume in due zone fondamentali: l’Ippocampo, struttura in cui risiedono memoria, emozioni ed altre funzioni quali l’orientamento (la prima struttura ad essere compromessa nella M. di Alzheimer!) e l’amigdala, risulta preponderante, dei due tipi di reduci, proprio quello che reca in sé la persistenza dell’incubo, che rende così esile la propria identità, “schiacciata da questa memoria persistente post-traumatica) al punto da farne sentire privati i reduci. Come Primo Levi. Cancellare l’incancellabile è impresa ardua.
Ma la vita va avanti.
E ci si auspica che la voglia di vivere abbia sempre la meglio.
“Il mondo ci spezza tutti quanti, ma solo alcuni diventano più forti laddove sono stati spezzati” Hemingway.

 

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