Rassegna Stampa

DANTE ALIGHIERI – Vitoronzo Pastore

Come nacque la Divina Commedia

Dante, con quel naso aquilino che spicca sul lungo volto, non passa inosservato. Le popolane se lo additano a vicenda. Vedete colui? Va all’inferno e torna quando gli piace e quassù reca nuove di coloro che stanno laggiù. Infatti Dante sta girando nei gironi dell’inferno.

Il Poeta

Fra il milledue e il milletre, l’Italia è un mosaico di domini. Dante, che è nato a Firenze nel 1265, dopo aver combattuto “fra grandissimo pericolo”; dopo aver coperto alti uffici pubblici; dopo aver partecipato a lotte di partiti, di fazioni; dopo essere andato, ambasciatore, dal Papa (Bonifacio VIII) che manovra esercito e complotti, si è per amor di patria, trovato in grossi guai. Lo hanno, nel 1300, condannato a multa grossa ed a perpetuo esilio, e lui se ne va, ramingo, sognando un pontefice senza intrighi, senza guerre, sovrano assoluto di tutte le forze dello spirito, ed un’Italia unita sotto la guida di un grande imperatore.

Nell’esilio, Dante viene accolto da tutti con benigno riguardo. Si fa maestro, per non riuscire inutile, studia e scrive.

Già molte cose, alte e di gran pensiero, sono uscite dalla penna di Durante Alighieri (Durante di è abbreviato a Dante) che conserva vivo, nel cuore, il tenero ricordo del suo primo amore. Per Bice di Folco Portinari, che non è più su questa terra, Dante ha già scritto molte e belle pagine in prosa e in rima; poi si è proposto di non parlare più della cara estinta fino a che non possa dire di lei quello che di una donna non fu detto mai.

Ora, in Verona, dove l’esule ha “onorata ospitalità” alla corte dei Scaligeri, il momento à venuto. Dante rivede, in sogno, la sua antica fiamma che sale, fra una corona d’angeli, verso il Paradiso.

Il piano è il quadro di un grande edificio, fatto di versi e di parole che prendono forma nel pensiero del poeta. Il poeta sente che l’antica donna amata è la sua ispiratrice, la sua beatificatrice. E nel poema che nascerà dal sogno e dall’esilio, Bice, beatificatrice, diventerà Beatrice.

Firenze – Museo Nazionale – Ritratto di Dante (Giotto)

Il poema

Come, con arte severa e diligente, si mettono pietre su pietre per costruire un mirabile edificio, Dante, con meravigliosa perfezione d’ordine e di armonia, mette versi, terzine, canti (alla fine do ogni canto c’è un verso che sta solo), costruendo, a poco a poco, un monumento ciclopico, geometrico, quadrato, equilibrato, fatto di 14.233 versi costruiti con 99.542 parole. Si forma così un’opera, un poema, che ha un canto per prologo e che dovrà essere formato da tre cantiche, ognuna, ai tre regni degli spiriti. Totale: cento canti. Ma copisti e stampatori faranno figurare il prologo come primo canto dell’Inferno. (Si propone qua, se non sembra irriverente, di dare, al “prologo”, il suo posto indipendente).

Poiché nella nuova opera si alternano scene truci e scene liete: il cantore dà alle cantiche, che hanno sostanza e movimento di tre atti, il nome di Commedia.

Nel 1841, un commentatore (Cristoforo Landino) dirà che Dante è un poeta divino; nel 1555, un editore veneziano (il Dolce) dirà invece, e lo stamperà, che è “divina” la “commedia”.

La lingua italiana si trova, ora, ai primi passi. È povera, bambina. I letterati parlano e scrivono in latino. Il popolino, il volgo, parla un suo semplice linguaggio che i dotti chiamano “volgare”.

Dante si mette a scrivere in latino anche la “Commedia” (Ultima regna canam… “Canterò gli ultimi regni…”); ma si ferma presto. Pensa, vuole che il suo lavoro sia compreso dalla folla; vuole che tutti possano seguirlo nel viaggio che, prima con la guida di un grandissimo poeta (Virgilio), poi quella di Beatrice, compirà, con le ali della fantasia, nel mondo degli spiriti; vuole che tutti conoscano i buoni ed i cattivi, le pene e le colpe, i meriti ed i premi, le delusioni e le speranze, le lodi e le frustate che la penna distribuirà senza riguardi per nessuno. Rinuncia perciò al latino da gente di chiesa e gente dotta. Per parlare al volgo, bisogna scrivere in volgare. Così, per gli Italiani ancora poveri di lingua, la Divina Commedia diventerà una miniera.

La visione

Dante gira, con la fantasia, nei gironi dell’Inferno; sale per le cornici del Purgatorio; vola nelle sfere del Paradiso. Nella sua opera s’ispira, da cristiano, alle basi della Fede cristiana che, in contrapposto alla breve vita passata sulla Terra, mette, nella vita eterna, l’espiazione o redenzione dei peccati e il premio divino per tutte le virtù. Ma la visione della città di Dite (Dite è uno dei nomi che hanno dato al diavolo); la visione dell’infernale baluardo che, chiuderà l’ultima e più grande segreta parte del regno del demonio, l’esule la raccoglie mentre, nelle sue peregrinazioni, è, nella Lunigiana, ospite dei Malaspina. Là , dal castello di Fosdinovo, le vette delle Apuane, già sepolte nell’ombra della sera, dorate, infiammate dal sole che tramonta, appaiono, agli occhi di Dante, come un enorme, diabolico, ferrigno baluardo di mura sorgenti dagli abissi dell’oscurità, illuminate da un immenso fuoco che divampa nel mistero.

Il tono del poema si eleva di mano in mano che il poeta sale verso il cielo. Nell’Inferno, le parole sono paurose, oscure, gravi ed aspre; nel Purgatorio, invece, si fanno mansuete, pietose, clementi ed indulgenti; nel Paradiso diventano festevoli e canore. E Dante, che sa di medicina, di disegno, di musica, di filosofia; che è un diligente cronista, un critico acuto, un accusatore severo, un giudice spietato; che (poeta o profeta) prevede l’immancabile, inevitabile, romana resurrezione dell’Italia, nello scoprire, fra tanti nomi ignoti, molti nomi noti, dà contorno di storica nobiltà agli uomini sommi per azioni, dottrina, virtù ed intelletto, e mette nell’Inferno quanti hanno fatto male di lui, a Firenze, all’Italia ed alla Fede.

L’opera

Dante, via via, passa o manda, a Verona, i canti a messer Cane della Scala (lo chiameranno, per i suoi meriti, Can Grande della Scala) che ne fa pare copia e fornisce copie ai molti richiedenti. E, anche a Firenze, i nemici di Dante, con curiosità che diventa ammirazione, vogliono conoscere quanto dice la Commedia.

La Commedia ha molti reconditi significati che non sono di facile interpretazione e che daranno gran da fare ai commentatori d’ogni età; ma quando, nel 1321, a Ravenna, alla corte di Guido da Polenta, Dante muore, mancano ancora tredici canti al componimento del poema.

  • Dove saranno?
  • Dante li avrà scritti?
  • Si sa che sono scritti.

Si cerca, si fruga, fra le carte, nelle casse. Uno, per caso, rimuove una stuoia che nasconde il piccolo vano di un’ignota finestrella e si scopre quanto manca per completare la Commedia. Dio ha dato, all’artista, la grande gioia di finire il suo lavoro.

L’opera compiuta sbalordisce per la sua immensità e per la meravigliosa perfezione. Il numero tre (tre regni, tre cantiche, trentatré canti per ogni cantica, tre versi per ogni strofa) risulta base e regola del grandioso edificio fatto di versi e di parole. Per rievocare qualcosa che abbia la bellezza architettonica del divino poema, bisogna pensare alle tre grandi piramidi d’Egitto ed ai tre piani ad arcate del nostro Colosseo.

Dante si è costruito, da sé, il suo grandioso monumento. Ma il poema perfetto e colossale, sarà anche il monumento di una religione, di una nazione, di una lingua e di una terra.

Il tempo

Passano gli anni, i secoli, e la Commedia si fa più bella. La copiano e la ricopiano; la stampano e la ristampano, l’adornano di fregi, di miniature; la traducano in dieci, venti, trenta, trentacinque lingue e oltre.. la leggono dalle cattedre (il suo primo lettore in pubblico è Giovanni Boccaccio, nel 1373); la commentano in mille modi. E il nome di Dante va in tutto il mondo.

Un’opera d’arte, di macigno, di ferro, di marmo, di colori, può essere logorata, corrosa, guastata, distrutta dall’acqua, dal fuoco, dagli uomini, dal tempo. Nessuna forza umana, nessuna violenza selvaggia, nessun cataclisma possono invece sopprimere un’opera (prosa, musica, poesia,) fissata sulla carta. Per ogni esemplare morto, mille rimangono vivi. Per distruggere la Divina Commedia bisogna distruggere la terra.

Tratto da “La Tribuna Illustrata del 18 febbraio 1940 n. 7 a firma di Mario FIERLI

  

Cartoline dell’archivio privato dell’Autore

 

 

To Top

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi