I.M.I. Internati Militari Italiani

I.M.I. CASAMASSIMA – INTERNATO MILITARE PIETRO CALISI – Vitoronzo Pastore

INTERNATO MILITARE PIETRO CALISI DI CASAMASSIMA

Nacque il 12 gennaio 1913 a Casamassima, da Raffaele e da Domenica Leogrande, abitante in via Turi, 32, di professione carrettiere. Il 7 aprile 1934 si presentò al Distretto Militare per chiamata alle armi, fu inquadrato nel 4° Reggimento Artiglieria Pesante. Il 12.12.35 venne inviato in licenza straordinaria di 90 giorni. Il 26 giugno 1936 fu collocato in congedo illimitato.

Il 29 ottobre 1936 si arruolò volontario con ferma indeterminata nei Regi Corpi Truppe Coloniali dell’Etiopia e inquadrato nel 19° Reggimento Artiglieria Divisione “Firenze”. Il 5.11.36 fu trasferito nel 10° Reggimento Artiglieria Divisione Fanteria Volturno in Caserta e assegnato al 60° Reggimento Artiglieria Granatieri di Savoia. Il 6 febbraio 1937 fu volontario in servizio per l’Estero a tempo indeterminato e inquadrato nel 2° Reggimento Fanteria Volontari del Littorio. Partecipò alla Guerra di Spagna; rimpatriò il 6.6.1939 presentandosi al Distretto Militare di Napoli, fu prosciolto dalla ferma volontaria e il 12.6.39 fu collocato in congedo illimitato. Il 9.10.39 fu richiamato per istruzione presso il 14° Reggimento Artiglieria, il 1° dicembre 1939 venne inviato in licenza straordinaria. Il 23 maggio 1940 si presentò al D. M. per richiamo alle armi per il 47° Reggimento Artiglieria. Il 7.3.43 fu trasferito al 191° Raggruppamento Artiglieria.

A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 si sbandò; il 17 settembre fu catturato dai Tedeschi e internato in Germania.

Il 28 dicembre 1945 si presentò al D. M. di Bari e, dopo la licenza di rimpatrio, il 28.2.1946 venne collocato in congedo. Venne decorato della Medaglia di Benemerenza, della Medaglia Commemorativa per la Guerra di Spagna e della Croce al Merito di Guerra.

Scorci dei ricordi

Figlio di contadini, appena terminata la terza elementare si alzava immancabilmente all’alba senza maledire la sorte per la giornata di lavoro che stava per iniziare; si recava sul luogo del lavoro a piedi o col carretto. La campagna era la sua vita, faceva parte della sua esistenza: zappava, seminava, curava le sue piante e i suoi animali. Le preoccupazioni più grandi erano le grandine, la siccità e le malattie. Passarono gli anni nella povertà e con i caratteristici segni inconfondibili del contadino dell’epoca con il preciso scopo del sostentamento, dell’arrangiamento e i propri sogni.

A 21 anni parte per il servizio militare a Fiume e, una volta tornato a casa, pur di fuggire da quelle lunghe giornate di sudore infruttuose, decise di partire come volontario per la Guerra di Spagna. Fece ritorno a casa dopo tre anni fregiato del nastrino della Croce al Merito di Guerra e del distintivo della Medaglia dei Volontari. Con i soldi guadagnati in guerra comprò vestiti e scarpe, una bicicletta e un grammofono. Aveva 26 anni ed era arrivato il tempo di mettere su famiglia.

Affacciata alla finestrella di una piccola casa in via Concordia, di fronte alla Chiesa Madre e vicina alla piazza del paese, aveva notato una graziosa signorina e per conquistare la sua simpatia le passava spesso davanti alla casa con la bicicletta e talvolta posizionava nella stradina il suo grammofono per farle ascoltare un po’ di musica, in cambio di un sorriso. Quella signorina si chiamava Gaetana Natale, detta Nina; aveva 21 anni, di bell’aspetto e con bellissimi capelli scuri e lunghi. Era la quartogenita dei sette figli di Giuseppe e Maria Donata Lorusso. Suo padre dirigeva folte squadre di braccianti agricoli mentre sua madre cuciva in casa, su commissione, abiti e corredi. La loro era una famiglia patriarcale dove il padre severo ed esigente comandava con la forza di un solo sguardo tutta la famiglia, mentre la madre era l’angelo buono del focolare, una tenera formica laboriosa che si occupava della casa e dei figli; cucinava, cuciva, preparava il pane bagnato dal sudore della sua fatica. Insieme con i tre fratelli e le tre sorelle, ogni mattina se ne andava in campagna con il traino e tornava al tramonto.

Dopo cena, i fratelli e il padre raggiungevano la piazza, dove la sera si radunavano a piccoli gruppi i contadini vestiti di scuro con la coppola, raccolti come in brusio di alveare per parlare del tempo, del lavoro e del raccolto. Le figlie restavano a casa con la madre e, prima di coricarsi, si affacciavano silenziose alla finestrella, perché alle donne non era permesso uscire la sera. Pietro, innamorato di Nina, dovette rivolgersi a suo padre che lo prese subito a cuore, perché anche lui si trovava negli USA, nel 1914, e assistette impotente alla perdita della vita di suo padre e di suo fratello. Però, prima di concedere la “frequenza”, mise alla prova il giovane per una settimana, lo portò con sé nei campi per accertarsi che fosse un buon lavoratore, poi lo invitò in trattoria per controllare che non bevesse troppo vino e infine, quando si assicurò che fosse un ragazzo a modo e affidabile, concesse la mano di Nina e la sua benedizione. Il fidanzamento fu breve, come era al solito in quei tempi. Il 1° dicembre 1940, la Seconda Guerra mondiale era già in atto, si sposarono. I novelli sposi rimasero soli solo per pochi mesi; Pietro fu richiamato alle armi. Nel 1941 ebbe una breve licenza per poter vedere il primogenito Raffaele, nato nell’agosto di quell’anno, poi raggiunse il suo Reparto in Albania e da lì in Libia e dalla Libia in Grecia.

Di tanto in tanto giungevano a casa le sue notizie che tenevano accesa la fiaccola della speranza, ma all’improvviso di Pietro non si ebbero più notizie. Ogni giorno Nina aspettava invano, dinanzi  alla porta l’arrivo del postino, ma poi si ritirava in casa con il bambino ad aspettare la sera chiedendosi cosa fosse successo al suo amato marito e se mai lo avrebbe rivisto. Nina conosceva bene la sorella del parroco, ogni giorno si recava furtivamente insieme a lei in sacrestia per leggere i nomi dei Caduti in guerra che quotidianamente giungevano in chiesa, ma di Pietro nessuna notizia, non era né morto e né vivo.

Fu preso prigioniero in Montenegro e internato prima allo Stalag I A, Stablack in Polonia, poi allo Stalag VI G dislocato a Bonn-Duisdorf, successivamente a Moonsburg  (VII A), e infine, nella zona di Auschwitz. Durante l’internamento, Pietro dovette pulire latrine, ammontare le scarpe e i capelli degli Ebrei uccisi; si nutrì degli avanzi di cibo dei soldati tedeschi, spesso mangiò le bucce delle patate che loro gettavano nella spazzatura, soffrì il freddo, la fame e lo strazio dell’interminabile attesa di saper notizie della sua amata Nina e di suo figlio Raffaele. Resistette, con pazienza e tenacia, soffocò le lacrime e la disperazione finché arrivò la liberazione. Fu trattenuto dagli Alleati, si riprese fisicamente, venne rilasciato per il rimpatrio e affrontò il viaggio di ritorno a casa. Nel frattempo, al paesello, i sopravvissuti alla guerra e alla prigionia erano tornati quasi tutti. La speranza si era quasi spenta nel cuore di Nina, non aveva più lacrime da versare. Raffaele aveva cinque anni e solo per lui cercava di farsi forza e di andare avanti; le comari andavano e venivano per distrarla dalla sua disperazione, ma il suo cuore guardava sempre lontano, al ricordo di quel marito a cui sperava di riunirsi.

Un giorno, insieme con le due sorelle, si recò in città per interrogare un’indovina la quale vide nei tarocchi un corteo funebre trainato da cavalli neri e disse a Nina di mettersi l’anima in pace perché il povero marito era morto in guerra e il suo corpo non si sarebbe mai più ritrovato. Disperata, Nina volle interrogare un oracolo che girava tra le donne del paese: una rosa che sembrava di legno, forse la rosa di Gerico, che si diceva che avesse il potere di aprirsi e chiudersi se interrogata costantemente da qualcuno, e anche di mandare dei segnali visibili come risposta alle domande che gli venivano poste. Per giorni e giorni Nina rivolse le sue accorate preghiere a Dio e a tutti i santi affinché, attraverso la rosa, potesse ricevere qualche segnale di speranza sulla sorte del suo Pietro…, intanto vide i petali della pianta che cominciavano a schiudersi. Quella stessa sera, pian piano socchiuse l’uscio di casa, vide in lontananza un cane randagio che attraversava la strada, pensò a un simbolo di fedeltà, vide un autobus che si fermò e scese un uomo che si dirigeva verso di lei e udì in lontananza il fischio lamentoso di un treno. Spaventata, subito sbarrò la porta e nel suo cuore si riaccese la fiamma della speranza.

Era la sera del 26 dicembre 1945, Pietro, sfinito, con la barba lunga, i vestiti laceri e un borsone di tela raggiunse la casa di sua cognata a Bari, suonò alla porta. Increduli e felici lo accolsero con grande gioia, lo ripulirono, lo sbarbarono e dopo una cena appetitosa, abbondante e ben fornita gli prepararono un letto per dormire in attesa dell’indomani. Il mattino dopo i parenti presero il treno che dalla città li portò al paese, bussarono alla porta di Nina e le diedero la bella notizia. Presero lei, il bambino e i suoceri e li portarono a Bari, dove finalmente si ricongiunsero dopo 5 interminabili anni di lontananza e di silenzi.

Il suo ritorno fu festeggiato in tutto il paese e per giorni la casa fu visitata da parenti e dagli amici che vollero salutarlo e ascoltare la sua disavventura. Aveva speso in tutto dieci anni della sua giovinezza in due guerre, la prima per necessità e la seconda per dovere, e ora ritornava alla vita, smarrito e incredulo. Il tempo riprese a fluire e a donargli un po’ di serenità; l’anno successivo nacque Domenica e nell’aprile del 1950 il terzogenito Giuseppe.

Pietro lavorò duramente per tutta la vita, come guardiano notturno, come bracciante agricolo per mandare avanti la famiglia; seppe riempire la casa e illuminare la povertà con tante piccole attenzioni con i suoi fiorellini di campo. A casa, Nina, seppe tirare l’oro dal poco che avevano e, risparmiando su ogni cosa, riuscì anche a sistemare la casa e a far studiare i suoi figli.  Pietro in campagna trapiantava gli ortaggi, estirpava agli e cipolle, si curava della vite, raccoglieva le olive e le mandorle; Nina a casa con il grembiule e il fazzoletto legato sulla testa mungeva la capra, faceva il formaggio, cresceva galline e conigli, faceva le sue battaglie con l’impasto per fare la pasta e il pane e conservava le provviste per l’inverno.

Fino a quando la salute glielo permise, Pietro continuò a lavorare la terra in due piccoli fazzoletti di sua proprietà, li curava come due preziosi giardini. Ogni mattina si affacciava alla finestra per scrutare il cielo, prendeva il tascapane e la coppola e se ne andava in campagna, con il suo motorino. Qui, tra un lavoretto e l’altro, si fermava per fumare una sigaretta e guardava il panorama con orgogliosa tenerezza. Non poteva fare a meno di quelle ore in campagna, nel silenzio della natura, tra il profumo della terra e dei fiori con il cinguettio degli uccelli. Quando incominciò a non stare più bene con la salute e dovette lasciare la campagna, si sentì umiliato dalla vecchiaia che lo condannò a stare sempre in casa nell’inerzia e con il dolore fisico. Gli piaceva stare in compagnia con i suoi nipotini, raccontava i suoi ricordi e le esperienze negli anni della guerra. Nella vita gli erano successe più cose di quanto ne erano accadute a molti, ma non aveva reagito con rabbia e con rancore, al contrario, con l’orgoglio di aver attraversato l’inferno e di esserne uscito vivo.

Incredibile ma vero. Dopo un paio di mesi di quanto sopra scritto, un mio amico, da me delegato da diversi anni, gira i mercatini per un hobby diverso dal mio. Anni fa ci incrociammo a un mercatino milanese. Al mio ritorno, lo delegai di prendere per me, acquistando, qualsiasi tipo di materiale militare. Qualche giorno fa mi telefonò e mi disse di aver acquistato materiale di mio interesse. Ci incontrammo. Spulciai velocemente tutto, soffermandomi sulle corrispondenze dagli Stalag. Una, due, tre, quattro, IMI di Casamassima, verso la fine la quinta, del Signor Pietro Calisi. Per ognuna di tutte per me è una emozione e immaginai quanta emozione avrebbe procurato alla famiglia Calisi, indescrivibile.

Eccola, incredibile, non arrivò mai a destinazione, fu emozionante quando la sua famiglia presero tra le mani la missiva

dallo Stalag VI G, campo di lavoro 289, manoscritta il 25 maggio 1944

Amatissima cara, ti invio i miei saluti, sto benone, spero anche di voi tutti in famiglia. Non pensare a me che sto bene. Cara, tutto finisce. Invio i miei saluti a tutti, baci a te e al caro figlio, per sempre tuo amatissimo Pietro.

Stammlager l’incubo della memoria – Vitoronzo Pastore

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