I.M.I. Internati Militari Italiani

INFERMIERE LUIGI TURCHETTI INTERNATO IN GERMANIA – Vitoronzo Pastore

Relazione riguardo il mio internamento in Germania

Ancona, 1° ottobre 1945

Il Capo infermiere Luigi TURCHETTI nacque ad Ancona il 28 febbraio 1903, da Alessandro e da Elena Luccarini; dal febbraio 1943 operava all’ospedale di Tolone alla dipendenza in un primo momento del maggiore medico R. M. Signor BARNABEO, in un secondo tempo del tenente colonnello medico R. M. Signor ZACCARESE e direttore di Sanità colonnello medico Signor TALLARICO. Svolse il servizio per tutto il periodo fino alla capitolazione dell’Italia in qualità di capo cuoco, cucina ammalati, distaccamento e mensa ufficiali, continuando poi fino al 10 novembre dello stesso anno, durata in cui ebbe vita l’ospedale al comando del Sig. ZACCARESE, assicurando così il vitto a più di 300 ricoverati e al personale di servizio (ufficiali, sottufficiali, graduati e truppa).

All’8 settembre 1943, trovandomi al servizio della R. M. a Tolone nelle qualità del grado sopracitato, svolgendo il mio unico incarico che ho rivestito durante tutta la permanenza in Francia di capocuoco di un ospedale, continuai a tener retto il servizio nell’interesse dei malati e del personale che ammontavano a circa 300-400 e per tre o quattro giorni continuai a fare la solita vita per la sussistenza italiana della marina con un’auto ambulanza per ritirare i viveri con regolare registro di prelevamento come sempre avevo fatto.In quei giorni, però, ritiravo in forma alternata, perché il maresciallo di sussistenza Signor DOTI, mi lasciava caricare quello che volevo suggerendomi che presto i tedeschi avrebbero chiuso le porte.

Il sergente tedesco, che unico figurava interessato, lasciava fare al maresciallo Doti a beneficio dei malati e componenti il servizio. Questo durò per quattro o cinque giorni e cessò solo quando i Tedeschi chiusero i battenti e distribuirono i viveri alla sussistenza tedesca, materiale che io, in seguito, ritiravo mediante buoni fornitemi dall’ospedale tedesco per interessamento del tenente commissario signor CIRELLA, il quale fino alla metà di ottobre si interessò della amministrazione ospedaliera ed in seguito non si fece più vedere in ospedale facendo i suoi interessi e circolando come civile per Tolone.

Svolgendo così il regolare servizio da capocuoco fino ai primi di novembre e per servirmi di un interprete per intendermi col personale della sussistenza tedesca nei prelevamenti, cercai fra gli ammalati uno che sapeva qualche cosa di quella lingua. Questo era un romano, certo MASTROVITO, trovandosi ricoverato per febbre, era un soldato di fanteria e diceva di essere stato nel 1939-40 a lavorare in Germania e che fu rimpatriato per sua volontà. Il Mastrovito non era un valido interprete, comunque veniva chiamato dal colonnello Zaccarese per interpretare i colloqui che di tanto in tanto avvenivano con il colonnello tedesco. E in questo ebbi la possibilità di sapere ciò che i tedeschi volevano fare di noi.

Un bel giorno si seppe che il 12 novembre l’ospedale con tutto il personale e malati sarebbero stati trasportati da un’altra parte e quindi noi capimmo subito che volevasi dire Campo di Concentramento, per il fatto che precedentemente era successo ad un altro scaglione in seguito ad un controllo fatto dal colonnello tedesco fra gli ammalati e personale di servizio che partirono per la metà di ottobre, inviati a mezzo di autocorriere a Pirfu (località del Var), pochi chilometri da Tolone. Qualcuno di questi arrivati videro di non essere più liberi, scapparono e vennero di nuovo a Tolone vestiti civili e si buttarono a randagio per la Francia. Fu in questo modo che io e l’interprete decidemmo di scappare pensando di non dar retta a quello che di tanto in tanto il colonnello Zaccarese ci diceva nelle sue assemblee, raccomandandoci di non scappare e che ci avrebbe condotti col comandante GROSSI a Betasom, dove si organizzava di nuovo la marina repubblicana senza però fare interrogatori per adesione personale.

Un giorno con un francese col quale io facevo forniture di frutta per il fabbisogno dell mensa e si ragionava spesso della nostra situazione, ci mettemmo d’accordo per farci accompagnare fino a Mentone per trovare la possibilità di varcare il confine. Così la sera del 10 novembre, fatte le regolari distribuzioni alla mensa, senza dir nulla a nessuno, lasciammo l’ospedale (molti altri ufficiali e sottufficiali erano già scappati),  con tre ufficiali, compreso il Signor Zaccarese e un sottotenente medico, Signor ANGELINI, un secondo capo BRASCHI, pure lui infermiere, il maresciallo ASINI, il tenente infermiere dell’economato Signor DANIELI e qualche altro di cui non ricordo i nomi.

D’accordo già come eravamo col francese, alle 8,00 di sera ci trovammo alla stazione vestiti da borghesi; avevo con me due valige contenenti biancheria, le cose più care, un po’ di roba da mangiare e parecchie sigarette, e come moneta francese, avevo l’ultima mia mensilità fino all’8 settembre e qualche po’ dei miei risparmi, più i mille franchi che qualche giorno prima il colonnello Zaccarese distribuì come disfatta della cassa, dando a ciascuno dei presenti una quota adeguata alla carica che ognuno  ricopriva. Prendemmo il treno e giungemmo a Mentone verso la mezzanotte;qui incominciammo a trovare le prime difficoltà, ci nascondemmo per un giorno intero, e la guida ci fece conoscere le difficoltà che si presentarono in quel giorno, dal fatto che i tedeschi avevano regolato e controllato il confine metro per metro: Da noi pure si vedeva con i nostri propri occhi che altri italiani venivano presi e quindi preferimmo aspettare nascosti in una cabina di manovra della stazione. Il traffico ferroviario in quei giorni era stato fortemente interrotto dai bombardamenti: diversi ponti giù, e si pensava di darsi ai monti, ma di questo non si fece in tempo. Il giorno dopo scappammo dentro un treno che si mise in moto verso l’interno della Francia e non si poteva più scendere: perdemmo il nostro guidatore e, nell’impossibilità di fare altro, continuammo il viaggio. Superati i controlli, decidemmo di scendere a Marsiglia. Questa città io l’avevo visitata un paio di volte, qui preferivo restare; intanto col mio amico decidemmo di trovare locanda presso qualche famiglia per poter riposare dato la grande stanchezza.

Il giorno appresso ci trovammo per caso con dei francesi in un locale pubblico, questi capivano bene l’italiano, davano l’aspetto di essere uomini per bene, e in pochi istanti si entrò in discorsi interessanti. Ci confidarono che in quei giorni erano in attesa di partenza per la Germania come operai, dato che da quelle parti il lavoro non si trovava e quel poco che vi era, si riferiva alla costruzione di rifugi, quindi la massa operaia aveva fame e che il costo della vita era sempre più caro. Il mio amico nel sentire quei discorsi, insistette di cercar di mettersi dentro anche senza documenti. Così parlando convinse anche me dicendo che, una volta arrivati, si sarebbe dato da fare pure per avere un rimpatrio come operaio, in un paio di giorni ci mettemmo d’accordo e si partì in mezzo ad un centinaio di operai alla volta della Germania. Chi accompagnava il convoglio erano già accordati e andammo avanti così fino a Stoccarda. Noi non avevamo nessun documento e al confine franco-tedesco vi fu un misero controllo fatto da un poliziotto che ritirava quello che era stampa o giornale, non chiese nessun documento.

Molti degli operai uscivano dalla stazione ed anche noi ci infilammo in mezzo ad essi. Giunti in questa città, osserviamo la calma assoluta, alcuni di questi operai sapevano che un francese gestiva un piccolo albergo dove trovammo così da poterci fermare. La massa operaia però si diramava in varie località della Germania, noi preferimmo fermarci cercando di cambiare una parte della moneta per affrontare le spese di consumo. Trovammo che questo che gestiva l’albergo, ritirava pure moneta francese, così potemmo cambiare quanto era il presunto fabbisogno, rivolgemmo pure delle domande se in Stoccarda era facile crearsi qualche documento da parte di qualche consolato italiano; questi ci fece capire il contrario, gli chiedemmo da mangiare e qui si venne a conclusione di comprare una carta annonaria mensile. Ragionando con il Mastrovito si concluse di continuare il viaggio per Berlino in cerca delle sue vecchie conoscenze.

Io qui incominciai a diventare pauroso, confesso che mi sembrava di essere diventato un fesso qualsiasi, non riuscivo più a farmi intendere con nessuno, e così lasciai fare a Mastrovito e trovando la possibilità di riprendere il treno con quelli che proseguivano per Berlino. Qui arrivammo alle cinque del mattino dopo, un viaggio di un giorno e di una notte; uscimmo tra tanta confusione dalla stazione. Il mio amico, subito orizzontatosi, mi invitò a camminare svelto per prendere il treno elettrico. Con pochi soldi fece i biglietti e dopo questo transito di appena un’ora e mezza, giungemmo in una piccola stazione chiamata Babelsberg. Strada facendo questo mi diceva che ormai era sicuro di indovinare la strada per andare a casa delle sue vecchie conoscenze. Uscimmo da questa piccola stazione e con un’ora di cammino arrivammo in un campo dove trovammo degli italiani, molti di questi conoscevano il Mastrovito.

Qui ci trovammo a parlare con un giovanotto che lui ben conosceva. Questo era il fiduciario per gli italiani della fabbrica Frisike e Hopfer, in cui ho sempre lavorato; un certo Bisio, era un genovese che come lui raccontava, era da più di due anni che si trovava in Germania, disse di essere stato un soldato di marina pure lui. Presentatomi, ci scambiammo diverse domande ed entrammo subito in argomento di nostro interesse: capì subito e ci aiutò a facilitare i nostri desideri in poco tempo e ci spiegò come ci dovevamo comportare, sempre volendo accettare di mettersi a lavorare in fabbrica; non si cercava di lavorare, ma si cercava di organizzarsi un po’ per non essere più isolati e girovaghi.

Il giorno dopo, il fiduciario stesso ci accompagnò al consolato per crearci un documento di soggiorno in Germania, così che con l’accordo, in quattro o cinque giorni potemmo fare la presenza al lavoro. In questa fabbrica, da due o tre mesi, già lavoravano pure degli italiani internati militari, però nessun elemento era della Regia Marina, ma tutti del Regio Esercito ed Aviazione; con qualcuno di loro potevo scambiare qualche parola durante le pause, altrimenti non ci si riusciva, dato che sul lavoro erano proibiti i colloqui. Essi erano stati catturati in Jugoslavia, in Grecia, io però non raccontavo a nessuno la mia storia, la raccontavo come più o meno li potevo persuadere sempre in posizione civile. Vistomi lasciato libero, tiravo a campare facendomi i miei interessi e dando pochissimo soddisfazione a chi voleva sapere tanto quanto era necessario. I tedeschi non fecero nessun interrogatorio, solamente che l’ufficio mi fece firmare dei documenti che certo erano quelli riguardanti il lavoro in forma civile.

Raramente mi feci vedere di parlare col fiduciario, tutto poteva dare sospetto, mi feci amico con due piuttosto anziani che da più di tre anni lavoravano in Germania, questi era un certo Giuseppe GIUSI di Asti e l’altro, un certo Umberto FERRARI di Turbigo (Milano). Il Mastrovito lo lasciai perché visto che prendeva una piega poco simpatica per me, lavorai per tre o quattro mesi cercando pure di ingannare su qualche forma per poter avere una licenza da operaio, tanto per sfuggire e poter rientrare in famiglia, ma tutto questo fu vano. Il fiduciario mi prometteva ma nulla accadeva. Intanto io scrivevo ai figli che creassero un certificato sanitario comprovante la necessità della mia presenza in famiglia, le ebbi per il solo mese di aprile e maggio 1944; poi cessò per il fatto dell’occupazione di Ancona da parte alleata.

Una sera, rientrando in baracca, trovai il fiduciario che in una sua assemblea faceva capire a tutti che era necessario ritirare la tessera della repubblica fascista. Qui non avrei voluto accettare, però vistomi solo non potetti resistere dal non accettare, tutto quello che si trattava, era di lasciare i 15 marchi e tirare avanti, così firmai e non ebbi più nessuna altra noia per quello che si poteva riferire all’effetto della iscrizione.

Si era liberi solo la domenica e non tutte, in settimana se si mancava, occorreva una giustificazione del dottore, poche scuse erano ammesse, e i capi operai davano subito informazioni alla polizia della fabbrica i quali subito ti cercavano e spesso erano anche botte. La paga si aggirava dai 180 ai 190 marchi al mese, dai quali veniva ritirata la spesa del campo e del mangiare; il dormire era in baracche con letti a legno e paglia. Questa vita cessò solo con l’arrivo della guerra in quella zona e il 21 aprile 1945, liberato dai Russi, fui interrogato solo un paio di volte per il fregio che indossavo dalla C. R. I. e questi mi dicevano di andarmene a casa che ero libero. Fu per questo che il 12 maggio mi decisi di partire facendomi strada fino a Winterberg insieme ad altri, ma arrivati ad un certo punto si trovò dei posti di blocco organizzati dai Russi stessi i quali ci fermarono tutti conducendoci in un campo a Buchenwald dove ci ammassammo e giungemmo ad un numero di più di 12.000 italiani e con più di tre o quattro mesi di attesa si riuscì da qui a prendere il treno per il rimpatrio e precisamente il 12 settembre.

Durante questa attesa in questo campo più di tre mesi, io in compagnia di diversi ufficiali medici ed altri sanitari di vari corpi, allestimmo una improvvisata infermeria per curare i bisognosi che affluivano con malattie e ferite di tutte le specie, facendo servizio pure in tradotta durante il viaggio di ritorno. Arrivai in famiglia il 22 settembre 1945 dopo 10 giorni di viaggio.

OPPRESSIONE – dall’8 settembre 1943 alla liberazione – Vitoronzo Pastore

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